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D'Abruzzo
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Tempo di carnevale

Per la cultura contadina, Carnevale è uno dei momenti più complessi, contradittori ed inquietanti dell'anno. È il lungo confine tra la stagione invernale e quella primaverile e non solo perchè comincia a Sant'Antonio Abate e, attraversando la Candelora, San Biagio e qualche volta anche San Valentino, continua, in un crescendo di trasgressioni, fino a martedì grasso.
Carnevale è una grande festa, anzi la Grande Festa del mondo contadino, perché, più di ogni altro evento, racchiude ed esprime gli archetipi e i valori fondativi dell'agricoltore. Di fronte ad uno scenario di campi gelati, di alberi apparentemente dissecati, di lunghe notti ventose e di giorni pallidi ed esangui, il senso religioso, di chi ha legato la sua sopravvivenza alla terra e al giro quotidiano del sole, si interroga sui misteri della morte, della vita e della rinascita, sull'antinomia del tempo finito degli uomini e del tempo rinnovato della Natura, si piega sotto il peso dell'angoscia e si sorregge all'anelito della speranza.
L'eccesso, la licenza, la disinibizione, l'orgia che, mediante una serie di pratiche simboliche e cerimoniali rimettono in discussione regole e certezze consumate dalla quotidianità, la rappresentazione che tramite il superamento della fisicità, tenta di arrivare alla percezione del Vero, la possesione che per mezzo della maschera rende corporeo lo spirito e ricongiunge, in una unica linea, i segmenti del passato e del presente, danno vita ad una sorta di mondo alla rovescia dove ognuno è, allo stesso tempo, sé stesso e tutti gli altri e ogni cosa, ogni gesto sono stupefacentemente nuovi e cristallizati nel mito.
Oggi, a dire il vero, poco o nulla resta dei carnevali contadini che un tempo animavano le contrade e le piaze con il corteo dei Dodici mesi, dei processi alla fame, alla miseria, alle frustrazioni, impersonate da una maschera sarcastica e tragica di vecchia procace e vogliosa che assume, di luogo in luogo, pur mantenendo caratteri comuni, espressioni e nomi diversi, delle abbuffate di ravioli e salsicce consumati in un canonico e rilucente pitale, a significare l'inesorabile rapporto, tra l'alto e il basso.
Nulla resta dell'oscenità trasgressiva della pantomima del gallinaccio che riempiva le osterie di risa ed incitazione salaci o dei dei giochi di iniziazione come È morto Sansone, con cui la gente di campagna rappresentava, in un gioco delle parti sempre uguale e sempre stupefacente la dimensione doppia dell'umanità e del tempo. I cavalieri in corsa non decapitano più, con un copo secco di spada, un gallo sotttrrato fino al collo.
Oggi il carnevale, ridotto a un gioco di mascherine infantili, omologato quasi ovunque in una sfilata di carri allegorici, chiuso entro lo sfavillio delle discoteche, forse, non è più il segno rappresentativo di valori cosmogonici. Ma in campagna, fino a quando, sia pure sempre con minore consapevolezza rituale, qualche vivace brigata di giovani, cantando, di casa in casa, inscena il Ballo della Sposa agitando i cimbali di un tamburello e suscitando con il travestimento allusivo l'ilarità generale, possiamo ancora sperare nella Salvezza.
E la sera di Carnevale
li pijeve la moje ji'.
Nin vuleve fa' lu pane
si nni ere farine de grane.

 

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