D'Abruzzo

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La terra del latte e del miele
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Itinera callium
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Devo partir lo vuol sorte crudele
Grave è la mia pena e il mio tormento,
Ma se certo mi fai che sei fedele
Tu mi vedrai partir da te contento.

Temer non puoi di me son fido amante
Altre non posso amar, amo te sola.
Con le pene nel cor che sono tante,
Il pensier che ho di te sol mi consola.

Le mie notizie vuoi, cara le avrai,
Di non farle mancar ne avrò la cura,
Il conforto che vuoi vi troverai
E la fede d'amor nel cor ti dura.

Col novo giorno mi vedrai partire
E come non soffrir se t'amo tanto?
Le nostre pene le possiam lenire
Quando amor mio ti torno accanto.

 

Testo liberamente tratto da "Se ascoltar vi piace. Quaderni di Francesco Giuliani", Lindau, Torino 1992.

Francesco Giuliani, nato a Castel del Monte nel 1890, ivi morto nel 1975 e' stato uno degli ultimi poeti-pastori della tradizione abruzzese.
I suoi scritti, di grande interesse antropologico storico e sociale, sono stati più volte studiati e pubblicati. Il paese natale gli ha dedicato il Museo della pastorizia.

Arie di Primavera

.L
SE  ASCOLTAR  VI  PIACE
La transumanza raccontata da un pastore-poeta.

Arie di PrimaveraI pastori per otto mesi nelle Puglie, lontano dalle famiglie, sparsi in quella sterminata pianura che ancora oggi si chiama il Tavoliere, tante volte nelle campagne deserte e malariche, per alloggio una stalla o la capanna, senza nessuna necessaria comodità, dove si viveva quasi la vita degli uomini primitivi; quattro mesi in montagna, eppure non erano tutti analfabeti. Nelle sere d'inverno riuniti intorno ad un gran fuoco, si leggeva e tutti ascoltavano attentamente. I libri preferiti erano L'Orlando innamorato, L'Orlando furioso, La Gerusalemme liberata, I Reali di Francia, Il Guerin meschino, Le mille e una notte, Le storie dei Paladini di Francia e Paris e Vienna. C'era qualcuno che poteva fare concorrenza a Silvio Pellico e Tommaso Grossi, nel sapere a memoria parecchi canti della Gerusalemme liberata. Però non tutti i padroni permettevano di leggere; c'erano di quelli che per l'avarizia superavano l'Avaro di Salerno e la sera, come questi, se ne stavano al buio. Quando gli affari andavano bene il padrone stava contento e ai pastori comprava il vino. La sera, rientrati nel rustico abituro, vi regnavano la pace e l'allegria.
Qualcuno che aveva un poco di intelligenza raccontava fiabe e storielle allegre. Vivevano nella più pura semplicità. Credevano per vere tutte le fiabe di orchi, di maghi, di fate, di streghe e questi racconti creavano sempre la delizia della pura e semplice compagnia. Raccontavano anche di tesori nascosti nelle caverne sui nostri monti, ma custoditi dai demoni, e non vi era stato mai un coraggioso che riusciva a prenderli. Quando tutto andava male per qualche nevicata o per qualche altro accidente, era come se si stava in lutto. La sera se ne stavano taciturni e muti e se qualcuno faceva una parola non c'era chi gli rispondeva; era come se si assistesse ad una veglia funebre. Qualcuno, annoiato da tanto silenzio, se ne andava a dormire. Se il pane era di cattiva qualità nessuno poteva reclamare. Pazientemente si doveva tollerare tutto. Negli anni del brigantaggio si può dire che vivevano sotto il terrore. Non potevano stare mai tranquilli; qualche volta di notte assaliti e derubati, la casa incendiata e a qualcuno veniva tolta barbaramente la vita. Quando non c'erano le ferrovie la maggior disgrazia per i pastori era quando cadevano ammalati; e nelle zone malariche accadeva spesso. Il malato che voleva e poteva tornare al suo paese vi andava a cavallo sopra il basto, accompagnato da un conducente che prendeva la via del ritorno. La paga giornaliera era di trenta o quaranta centesimi e un chilo di pane, al mese un litro d'olio e un chilo di sale.
Erano uomini grandi e robusti; chi sa che si sarebbero mangiato e dei trenta chili di pane ne risparmiavano cinque o sei e anche l'olio non lo consumavano tutto. Stavano sempre affamati come i lupi; mangiavano ogni qualità di verdura selvaggia. La carne delle pecore morte si salava e si conservava secca. Per conto del padrone erano attivi, infaticabili. Lavoravano non solo il giorno, ma anche parte della notte e per se stessi trovavano il tempo per radersi, rattoppare i panni, lavare la biancheria. Al tempo della partenza, nei tempi passati, c'era l'usanza che il giovanotto che aveva la fidanzata riuniva tre o quattro cantori e suonatori e con questi andava sotto la finestra della sua bella e con poche strofe rozzamente ingarbugliate esprimeva il dolore per la partenza, il pensiero che si aveva nella lontananza e l'ansia del ritorno. La fanciulla si affacciava e rispondeva con un mesto canto. Quelle strofe volentieri le avrei scritte, ma non mi riuscì di coglierle intere e per questo vi ho messo del mio.

 

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