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Oratio

Potentia de lu Patre, conforta me

Sapientia de (lu) Filiu, ensenia me.

Gratia de lu Spiritu Sanctu, allumina me.

Damme a ccognoscere te a mme,

K’io te poça amare et temere

Et poça spreçare et tenere me vile

E in reu mortale non poça cadire

E la vita eterna non poça perdire.

Amen.

Religione
La preghiera di Celestino
Testo di Maria Concetta Nicolai Foto Archivio D'Abruzzo

Un piccolo libro, gelosamente custodito a L’Aquila, racchiude le orazioni del Santo eremita che divenuto Papa dono' agli uomini, per la prima volta, il Giubileo del Perdono.

“In aurora diei sedebat in cella et erat liber coram eo, et legebat inCelestino V eo; fenestra etiam iam erat aperta”. Così, in un passo di mirabile intensità, il Tractatus de vita sua rappresenta San Pietro Celestino nella solitudine di Santo Spirito a Maiella. 
La scena si compone di pochi e nitidi elementi che conferiscono all’ingenuo latino dell’autore una profonda capacità evocativa: mentre l’alba si solleva sopra la linea delle montagne e a poco a poco inonda il silenzio della cella, il Santo siede davanti alla finestra aperta e legge il suo libro di preghiere.
Un intimo senso di serenità spirituale, una profonda comunione con la Natura, intesa come spazio del Sacro, un atteggiamento di meditativo abbandono nella preghiera, pervadono il quadro. E su tutto, sui muri nudi della cella-oratorio, sul davanzale di pietra grigia, sul verde del bosco rorido di rugiada notturna, sul chiarore aurorale che riempie il cielo, si solleva ieratica la figura del Santo che tiene tra le mani, capaci di dispensare, in nome di Dio, benedizioni e miracoli, un libro sulle cui pagine esercita, secondo la Regola monastica, la devozione quotidiana.
Quel libro, conosciuto con il nome di Codice Celestiniano è giunto fino a noi ed è conservato nella biblioteca del Museo Nazionale de L’Aquila. Il manoscritto, proveniente dal monastero di Collemaggio, dove fino al 1935, in occasione della Perdonanza, era mostrato alla venerazione dei fedeli, misura cm. 16,50 di altezza per cm. 10,40 di larghezza. È costituito da centosettantatrè carte pergamenacee numerate con lettere romane che giungono sino a CLXXI e, in parte, con cifre arabiche imposte sulla parte centrale alta dei fogli in epoca recente. È legato con assicelle di legno, di cui quelle che componevano la parte anteriore sono andate perdute ed è ricoperto con un tessuto antico a trama verde, oro e rosa, il medesimo di cui è costituita la tomaia delle pantofole indossate dalle Sacre spoglie.
I testi sono scritti in minuscola gotica, a piccoli caratteri, con una grafia semplice, attribuibile, tranne le aggiunte e gli excerpta, chiaramente posteriori, alla mano di un solo amanuense che usa vari inchiostri e dimostra una certa esperienza. La tecnica compositiva è ricca di abbreviazioni che fanno ipotizzare un uso privato e personale del libro. Sul recto della prima carta appare la seguente postilla quattrocentesca, stilata, probabilmente, da un monaco celestiniano: “Hunc librum dicitur scripsisse sanctissimus pater noster Petrus Celestinus, in quo continetur diverse materie, tam morales, quam canonice et in fine ponitur tabula de contentis in eo”. Sull’ultimo foglio un’altra annotazione indica la provenienza: “Celestinorum beate Marie Collis Madij prope Aquilam”.
Il manoscritto ha carattere miscellaneo ed è composto in latino, per la parte più estesa, in volgare per la sezione che va da c CLXI r a c CLXVII r. Anche il contenuto, segue la distinzione linguistica: in latino sono scritti un repertorio di giurisprudenza canonica e una serie di racconti morali, che hanno come elemento e conduttore il tema dei miracoli mariani; in volgare sono scritti: la Lamentatio Beate Marie de Filio, i Proverbia, e quindi quattro preghiere: Oratio vulgaris, Oratio, Oratio ad Cristum, Oratio ad Beatam Mariam.
I testi in volgare rappresentano la prima testimonianza della nuova lingua letteraria in Abruzzo e risultano coevi ai componimenti poetici della Scuola siciliana, la qualcosa “permette di approfondire il concetto di letteratura dell’Area mediana, ossia di una zona diversa, anche per tradizione tecnica, da quella siciliana e toscana largamente indagate e glorificate”. 
Ma al di là degli aspetti storico, paleografico, linguistico e tematico, l’uomo contemporaneo considera il Codice anche nella dimensione tutta oggettuale di un libro che, stando alle testimonianze, San Pietro Celestino tenne con sé fino alla morte.
Da tutta la vicenda umana e spirituale di questo Santo delle montagne abruzzesi emerge un costante distacco da ogni bene materiale e da ogni possesso personale, tanto più determinato e profondo, quanto più è evidente la concretezza con la quale svolse il ruolo di fondatore di un ordine monastico che dotò di monasteri e chiese.
La determinazione che lo spinse in cammino, tra mille disagi, verso Lione per assicurare alla Congregazione dei Fratelli penitenti dello Spirito Santo non solo un futuro religioso ma anche il mantenimento delle proprietà acquisite in anni di apostolato, rivela il carattere di un uomo in grado di dare il giusto valore alla sicurezza economica e di considerare denaro e averi il mezzo, a volte indispensabile, per svolgere la propria missione religiosa nel Secolo.Celestino V
Alla Congregazione, anche negli anni di governo del fondatore, si ascrivono la bonifica di vaste aree agricole intorno ai monasteri, la regolazione di corsi d’acqua, la costruzione di mulini, l’incremento dell’attività armentizia, il sostegno spirituale ed economico delle Fraterne, tra i cui scopi, c’era il miglioramento della condizione sociale dei partecipanti; la stessa costruzione della basilica di Collemaggio nelle immediate vicinanze di una città nuova, nata dalla confederazione di castelli come era L’Aquila rivela un’attenzione politica e un’esatta considerazione dell’esercizio del governo, entro la struttura civile.
Ma per la propria persona San Pietro Celestino previde solo il rigore della scelta ascetica. Le cronache riferiscono una vita di rinunce e di penitenze: i digiuni, gli abiti indigenti, il giaciglio ricavato sulla nuda terra, la cella senza la pur minima comodità, la severa essenzialità persino degli arredi e dei paramenti utilizzati nella celebrazione della Messa. 
Scendendo da Sant’Onofrio al Morrone per accettare il peso della carica papale lasciò tutte le sue povere cose. L’unico oggetto dal quale non si separò sembra essere stato questo piccolo libro di letture morali e di preghiere. Un libro modesto, anzi di nessun valore rispetto ai grandi codici preziosamente miniati che in gioventù aveva osservato a San Giovanni in Venere o in qualche altra abbazia, ma un libro che rappresentava la sua stessa dignità monastica.
Educato entro la famiglia di San Benedetto, nel periodo di splendore dell’Ordine e in luogo non troppo distante da quel grande faro culturale che fu Monte Cassino, vera città di Dio nella storia d’Europa, certamente per il giovane Pietro di Angelerio il segno della vita “sub Regula vel abate” dovette essere il libro, un segno che si incise nel suo spirito. Giunto a Santa Maria in Faifoli dalla nativa Isernia il libro rappresentò immediatamente la differenza fondamentale tra la vita secolare e quella monastica, il riferimento materiale dell’Opus Dei, la scansione stessa del tempo, a cominciare dal grande libro delle ore aperto nella penombra del coro per la prima preghiera della notte. E la giornata claustrale continuava con la lettura del Salterio, del Messale e dell’Antifonario durante la liturgia, della Regola nella sala del Capitolo, delle Vite dei Santi nel Refettorio. La fama dell’abbazia era legata al lavoro dello scriptorium, la sua ricchezza al tesoro della biblioteca, il prestigio dell’abate, del priore, dei decani alla capacità di interpretare la scritture. L’immagine di un vecchio e venerabile monaco preso nella lettura sotto il porticato del chiostro, sarà restata a lungo nell’animo di San Pietro Celestino, come ricordo degli anni in cui si era formato alla vita religiosa e al ministero sacerdotale. 
Il libro dunque come simbolo di dottrina, di preghiera, di Verità: così l’austero Eremita deve aver considerato questo piccolo codice, la cui scrittura appena rubricata, sia che possa esserne Egli stesso o un altro l’estensore, tuttavia rappresenta materialmente lo spirito di un Santo che nessun’altra bellezza, nessun’altra ricchezza, nessun altro potere, nessun’altra perfezione ricercò se non quelli che gli venivano dall’annullamento del suo stesso essere in Dio. 
Il tempo non ha offuscato la potenza evocativa della memoria e il luogo dove è custodito non sminusce l’emozione che l’uomo contemporaneo prova di fronte a questa reliquia. 
Sulle pagine resta l’orma della mano del Santo, sulla scrittura nitida e ordinata resta la traccia del dito che segue, leggendo, la parola, mentre dal profondo del cuore sale l’invocazione: “Potentia de lu Patre conforta me”.

 

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