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Storia
Emittere Fucinum
Testo di Ezio Burri Foto di Ezio Burri e Mario Vianelli

La lunga storia di una delle più straordinarie imprese mai realizzate in periodo antico per la gestione del territorio: il prosciugamento del lago ai piedi del Monte Velino.

Da tempo vi era una strana animazione sulle pendici boscose del Monte Salviano e di tutte le altre giogaie limitrofe. Non si era mai vista, infatti, una simile processione di soldati che, coadiuvati, manovravano strani ed ingombranti strumenti, operai generici e servitori, tutti sotto lo sguardo vigile di manipoli di legionari armati di tutto punto. 
Questo osservavano con stupore le popolazioni marse, pensando che le istanze mosse decenni prima nei confronti di Giulio Cesare, non più disattese e dimenticate, finalmente, ora trovano la loro attuazione. Il lago Fucino, e con esso il capriccioso dio che ne regolava la vita, sarebbe stato ricondotto a più miti consigli, non perché pago dei numerosi sacrifici che periodicamente gli venivano tributati, ma semplicemente imbrigliato dalla forza e dal sapere dell’uomo. Ne gioivano i contadini che finalmente avrebbero visto protetti dalle inondazioni i loro campi, ne erano perplessi i pescatori che avrebbero visto ridotto lo spazio ove praticare l’esercizio del loro secolare mestiere, mentre del tutto indifferenti erano i pastori ai quali importava solo non solleticare l’ira del nume locale che in quelle acque aveva eletto la propria dimora.
Questo, se vogliamo, l’ipotetico scenario che funge da preambolo ad una delle più straordinarie imprese mai realizzate in periodo antico per la gestione del territorio. Alla radice storica del problema vi è la particolare connotazione morfologica di questo lago, il terzo della penisola italiana per estensione, insediato in una conca di origine tettonica, circondato da rilievi calcarei, ma privo di un emissario naturale in grado di smaltire le acque che vi confluivano provenienti dall’esteso bacino imbrifero, dalle numerose sorgenti e dai molti corsi d’acqua tra i quali, certamente il più importante, il fiume Giovenco. Un drenaggio, a dire il vero, esisteva ma aveva luogo solo per via sotterranea attraverso inghiottitoi naturali, esigui in relazione alle necessità e, per giunta, intasati da detriti che certamente ne rallentavano la funzione. I locali, con straordinario intuito, avevano capito la dinamica di quel particolare fenomeno e già da tempo avevano realizzato canalizzazioni a cielo aperto, con lo scopo di agevolare la funzione del maggiore di essi, la Petogna o Pedogna, sito sin da allora ammantato di sacralità ed il cui toponimo ancora sopravvive nei pressi di Ortona dei Marsi. 
Ma tutto questo non poteva essere sufficiente in un’area circumlacuale caratterizzata da una bassa acclività e che ad ogni variazione in positivo delle acque inondava, disastrosamente, le terre che prima aveva restituito alla fruizione ed alla speranza. Se le analisi dei sedimenti lacustri oggi ci forniscono ampie conferme in proposito, le testimonianze archeologiche attestano come questa conoscenza fosse ben radicata nelle popolazioni locali e quante speranze esse stesse riponessero nella soluzione che ora vedevano concretizzarsi. Le istanze promosse, infatti, nei confronti di Roma traevano ragione dal fatto che in quella sede erano stati già risolti problemi consimili nei laghi chiusi del Lazio. All’imperatore Claudio la storia attribuisce il merito di averne voluto e finanziato l’esecuzione ma la stessa storia, per la consuetudine, probabilmente di derivazione militare, che impediva agli ingegneri imperiali di firmarsi, non ci ha tramandato i nomi degli estensori del progetto ed i direttori dei lavori. È questa una grossa lacuna, principalmente se si osservano in dettaglio le caratteristiche dell’opera idraulica realizzata per 5.650 m tutta in sotterraneo ed attraverso differenti terreni che produrranno inconvenienti di ben difficile soluzione. Se Svetonio ci ricorda come i lavori fossero durati undici anni (dal 42 al 52 d.C., anno della inaugurazione) con l’impiego di 30.000 operai, Plinio il Vecchio, che fu testimone oculare durante la loro esecuzione, ci tramanda un’immagine vivida delle difficoltà che non possono essere concepite se non da chi le vide, né il linguaggio umano è capace di descriverle. 
Anche gli ingegneri francesi che condussero nell’800 la costruzione della nuova galleria, quasi totalmente sovraimposta alla precedente, furono suggestionati dalla complessità dell’opera e ci hanno lasciato una attendibile descrizione della complessa rete di cunicoli e pozzi che intersecano il condotto principale, ivi compresa la deviazione, tra i pozzi 19 e 20, realizzata per aggirare, con notevole impegno, una frana avvenuta durante l’esecuzione dei lavori. 
Ma le cronache, poche, del tempo, e l’attenzione di molti degli eruditi, viaggiatori e storici che nei secoli successivi hanno in qualche maniera descritto l’emissario sotterraneo del Fucino, a lungo indugiano sulla cerimonia dell’inaugurazione, che avvenne in due fasi, tra i fasti della corte imperiale, il combattimento navale tra i gladiatori, l’evidenziarsi di qualche problema strutturale e la lite tra l’imperatore e la consorte Agrippina. 
Volutamente tralasciamo questa parte, che è pettegolezzo più che storia, per confermare che l’opera idraulica assolse in pieno il suo scopo, che altro non era se non quello di regimare le acque lacustri. Una piccola stele, nota come il cippo dei tre confini, datato metà del II sec. d. C. e le tracce di una centuriazione indicano chiaramente, infatti, come in età imperiale un’ampia porzione dell’antico alveo, circa 800 ettari di terre, rese fertili anche dal consistente deposito limoso, era stata messa a coltivazione. Così, con il progredire degli anni, tra interventi di manutenzione e migliorie, sulle quali è possibile fare solo ipotesi e congetture, si giunge ad Adriano che, come ricorda lo storico Elio Sparziano, Fucinum emisit, completò i lavori o, più realisticamente, ne condusse al meglio la funzionalità.
Dopo alcuni secoli di funzionamento della galleria, il livello progressivamente decrebbe, ma poco dopo si ripristina l’antica superficie lacustre (attualmente è ipotizzabile una collocazione storica dell’evento intorno al VI sec. d.C.). Il deterioramento e la mancanza di funzionalità del collettore sotterraneo possono essere attribuiti all’assenza di manutenzione, susseguente alla caduta dell’Impero romano, anche se indagini più recenti sembrano confermare l’esistenza di un evento sismico che potrebbe aver comportato il cedimento di una struttura già da tempo compromessa. 
Le fonti storiche tornano ad occuparsi del lago Fucino per testimoniare le nuove oscillazioni dello specchio lacustre, e i tentativi per restaurare l’antico collettore ed il ripristino della sua originale funzionalità. Vengono così menzionati i restauri di Federico II, nel 1240, quelli di Alfonso I, nella prima metà del XV sec. sino al consistente intervento, attuato nei primi decenni dell’800, da Ferdinando IV e materialmente diretti da Afan de Rivera sino al 1840. Pochi decenni più tardi i lavori fatti eseguire da Alessandro Torlonia ingloberanno nel nuovo collettore l’originaria struttura dell’opera idraulica romana, cancellandola quasi del tutto.

 

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