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Giorni d'Estate
La Madre del grano

Testi di Maria Concetta Nicolai Foto di Luciano D'Angelo

Signora delle stagioni, tu che moltiplichi i frutti e le spighe
provvedi che questo grano sia ben mietuto e che renda molti chicchi.
Lavoratori i mannelli stringete,
il taglio del covone esponete al soffio di Zefiro o a tramontana
affinché si impinguino i chicchi.

Teocrito, Idilli, X (I mietitori - Il canto del lavoro)

Che il giorno fosse colmo di misteri intrisi nell'ombra impenetrabile di una storia nuda e terribile, lo avevo percepito da prima che sorgesse il sole, quando il silenzio della casa era stato attraversato da un risveglio insolito, fatto di gesti brevi e attenti.
Sul lastrico della piazza si era inteso, nel buio della notte, dapprima uno scalpiccio sommesso di piedi scalzi, un'attesa fatta più di respiri che di parole, quindi, dopo il cigolio circospetto della porta sui cardini e il tonfo del battente che si richiudeva, il passo sicuro di mio nonno a capo della compagnia.
Nel sonno dell'alba oscillavo tra le voci che giungevano dalla cucina sottostante, trafficata dall'andirivieni delle donne intorno al focolare e ai fornelli, e il risveglio mi rivelava tutta l'eccezionalità della circostanza era il giorno della mietitura. Le cugine erano già ritornate dalla campagna con i canestri vuoti della stozza e la nonna già si apprestava a recarsi sul campo con lu rimbinze. In mezzo al giovanile e ridente corteggio che le era dappresso esprimeva il ruolo grave e solenne di padrona. Accomodandosi sulle tempie il fazzoletto che nascondeva appena il rutilante barbaglìo degli orecchini, il cercine sul capo e la cesta pronta ad essere issata sulla scura figura eretta contro la luce del giorno, negava con poche e determinate parole, alla mia petulante insistenza, il permesso di accompagnarla "questa non è ora di bambine. Sul campo c'è la Madre del Grano".
Mettendo insieme i tasselli che ero riuscita a cogliere tra i discorsi, immaginavo la schiera dei mietitori tra le messi assolate, le dita coperte di canne, le braccia gonfie di vene e il luccicare delle falci affilate. Immaginavo anche la Madre del Grano, immensa e in trono sotto l'olivo più frondoso che, come un idolo barbaro e spietato ogni anno pretendeva un tributo di sangue. Seduta sull'uscio, di fronte allo slargo sotto cui si aprivano le caverne del Monte frumentario volgevo lo sguardo verso la campagna onusta di giallo e di sete, sotto un cielo turchese e vibrante di cicale, mentre lontano si rincorrevano il canto dei galli e l'abbaiare dei cani. Percepivo l'archetipo e il doppio di un dramma una cifra oscura di sentimenti legati con un filo rosso. L'immaginazione mi rivelava la scena di una primordiale rappresentazione in cui erano protagonisti la madre con le ceste del cibo, la fanciulla con il bel piede roseo tra i campi fioriti e, in mezzo a loro, forte e vulnerabile, il mietitore.
Il cuore, sospeso nella solitudine della conoscenza, si fermava sulle soglie del Sacro, mentre, sull'aria che girava a mezzo il giorno, mi giungeva il canto che salutava la padrona

Sa n'à menute l'ora de lu mete
scappatene rane mj' ca mo' te tajie.
O San Giuànne che stai sopra ssu colle
vutte nu poche d'arji' a capabballe.
La code de la holpe te' lu pele
Gnora Patrona me' purtem'a bbeve
e damme l'acque, ne'mme da' lu vine,
damme na rama de truzzemarine.

Al ritorno il silenzio della nonna contrastava con il riso, inframmezzato di parole, delle ragazze. Si sedeva al fresco dell'acquaio, si scioglieva il fazzoletto dalla testa e si asciugava il viso con aria assorta.
Attingeva con il maniere un sorso d'acqua alla conca, si bagnava le labbra e, con un gesto lento e malinconico, gettava il resto in un angolo del focolare.
Nella cesta sopra il tovagliolo bianco che aveva coperto, all'andata, i cibi, giaceva un mazzo rigoglioso di spighe. Erano le prime che il caporale aveva reciso in nome di Dio. Quindi si alzava e, mentre sul tavolo della cucina le donne approntavano, per la cena, un'ecatombe di polli e montagne di scarola fresca, a capo scoperto, in un'intimità familiare concessa di rado, si avviava a sostituire con le nuove, le spighe poste l'anno precedente a capo il letto. Sulla parete bianca rosseggiavano, insieme al cero della Candelora, alla palma di Pasqua, alla crocetta dell'Ascenza e alla corona della buona Morte, in mezzo al suo santuario domestico.
Molti anni dopo entro la muffita penombra di una biblioteca, sulle pagine del libro aperto di fronte alla finestra, avrei trovato i nomi e gli spazi delle mie infantili teogonie Eleusi, Demetra, Persefone, i dona praemetia, l'offerente di Rapino, Lityerse e l'uccisione dello straniero con la falce messoria, Anna Perenna e Sant'Anna, Maria Bambina e l'Addolorata.
Ma la Madre del Grano, anche quando provai, seguendo l'Inno omerico, ad immaginarla "con il ceruleo manto gettato dagli omeri entrambi", non aveva altro sguardo che quello maestoso della nonna che si avviava, con le ceste sul capo a presenziare da Padrona alla mietitura di mezzo giorno.

 

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