Il cibo di Ferragosto

Affacciat’a ssa finestre palla d’ore,
ca te salute la trusamarine.
Ca ce sta nu giuvanette ca te vole,
senza licenzia tue nen bo’ trasire.
Te l’à ccattare na nelluccia d’ore,
te l’à da mett’a ssu detucce fine.

Oggi Ferragosto è tempo di vacanze, di viaggi, di divertimenti che qualche volta rischiano di trasformare il mese più caldo dell’anno in una corsa all’evasione a tutti i costi, più per convenzione, che per consapevole scelta individuale.
Per il mondo contadino Ferragosto era il tempo del riposo e del ringraziamento, secondo un antichissimo modello religioso che trova la sua origine in un tempo mitico, e in ogni caso molto prima che nel 18 a. C. Augusto istituisse alle calende dell’ottavo mese le feriae augustales.
Le quali, del resto, con una serie di cerimonie di carattere agrario al tempio di Diana e Vertumno sull’Aventino e infine con le Vinales rusticae e le offerte ad Opeconsiva, urbanizzavano quei rituali popolari che, diffusi nella campagna, trovavano l’esempio più illustre nelle feste della selva aricina sul lago di Nemi.
Dal momento in cui lo sviluppo antropologico passò dal modello nomade e seminomade dei cacciatori e degli allevatori a quello stanziale dei raccoglitori e degli agricoltori, si diffuse il bisogno di ringraziare la madre di tutte le messi, la triforme, immensa signora del cielo, della terra e del sottosuolo, divinità cereale feconda e vergine intoccabile.
Ebbero origine, così, i pellegrinaggi ai suoi santuari, posti quasi sempre nel cuore di un bosco consacrato o tra le pietre assolate di una montagna. Assunsero una struttura cerimoniale le offerte votive di cibo e i banchetti rituali, in cui la dovizia e l’eccesso erano la misura di confronto con il sacro.
Partendo dal pantheon indoeuropeo che struttura i suoi culti intorno alle figure femminili delle Pothnie, reggitrici della natura e degli animali, di fronte alle quali la Venere profana della tradizione tardo imperiale non è che una pallida ombra, nasce la tradizione delle scampagnate alimentari a base di polli, di oche, animali notoriamente dedicati a Cibele e Demetra.
Hanno origine le processioni con i carri di donativi, i covoni, i manoppi, le conche offerti con gran pompa ai santuari fuori dell’abitato, dove la religione cattolica ha sostituito i primitivi altari con quelli consacrati all’Assunta e San Rocco.
Si spiegano i riti notturni, i fuochi, i canti, i balli davanti ai santuari al suono inquietante dell’antico tamburo di capra, come ancora si vede alle Madonne vesuviane, a Piedigrotta, a Gioiosa Jonica, a Seminara, e in tutta quell’area che fu la Magna Grecia, dove l’epifania del Santo è l’imponente parodia dei giganti che incedono al ritmo del rullante.
In Abruzzo, delle antiche feste di Ferragosto, forse resta solo quella di Santa Maria di Ronzano nel territorio di Castel Castagna dove, dinanzi alla spianata della splendida chiesa abbaziale, permangono ancora tutti gli elementiarchetipali, dalla fiera, alla colazione sull’erba, in cui predomina il prosciutto di montagna, assunto a dimensione rituale, la benedizione dei bambini, considerati primizie del grande anno che è la vita terrena.
Delle altre, facendo una ulteriore eccezione per quelle di San Rocco, in cui i devoti compiono ancora gli atti della penitenza e della lustrazione, prima di dare l’assalto ad una montagna di porchette arrostite, restano solo gli aspetti esteriori legati al cibo.
Ma la società contemporanea, abituata a ridurre i simboli in apparenze, ha trasformato la celebrazione del cibo e del mangiare comunitario in quell’ibrida espressione che sono le sagre culinarie, ormai tutte uguali e tutte a base di patatine fritte, hot dog e birra.