Il cibo della tresca

O vende ca rifrische la scarole
arifrische l’amore mio ca mo’ se more.

O San Giuhanne ca staje sopra’a ssu colle,
vutte nu poche d’arjie a ccapabballe.

Ancora più di quello della mietitura, in cui l’opera dell’uomo era attraversata dall’inquietudine di un mistico dramma che congiungeva con il simbolismo della falce messoria il tempo della terra e del cielo, in nome di una morte reciproca e fatale, quello della tresca era giorno di grandi fatiche, per gli uomini e gli animali, ma anche giorno di gioiosa vigorìa e di alacre soddisfazione. 
Era infatti l’occasione in cui la famiglia provava pubblicamente la solidità dei legami parentali, i rapporti entro il gruppo di appartenenza ed esibiva il prestigio e le risorse economiche di cui disponeva. 
Quello della tresca, era un giorno che iniziava prima del sole, sull’aia dove già dalla sera prima si erano predisposti macchine, strumenti e grano. 
Quando il vociare, perso dapprima nell’ombra notturna, e poi via via più definito annunziava che la compagnia dei trescatori era al completo, arrivava sullo spiazzo anche la padrona di casa, in quell’occasione signora più che mai della grascia, recando in testa una cesta biancocoperta e odorosa di forno.
La seguivano le figlie, le nipoti, recanti, come per gioco, il peso leggero dei trufoli* ricolmi di vino stumbrato, che era poi una densa bevanda, ottenuta mescolando una parte di mosto cotto con cinque di crudo, e da allungare giudiziosamente con l’acqua fresca del bariluccio.
Lo scuro teneva ancora gran parte del cielo e la luce era solo una lama sottile dietro le colline, quando aveva inizio lu sdijune, una zuppetta di vino e biscotti. Chumberzijune, rimbinze, panicelle, panelle, ferratelle, dolci semplici di pasta ricresciuta e fragrante di anice.
E subito al lavoro; ma non appena la rosea aria dell’alba stava già svanire fin nel punto più lontano dell’orizzonte, arrivava la stozza. Pane e prosciutto, pane e formaggio, salsicce, ventricina. Era ancora un cibo da consumare all’inpiedi e senza smettere il lavoro che continuava tra un boccone e un sorso al trufolo.
Per riposarsi bisognava aspettare la mezza mattina, quando verso le nove tornava il corteo delle donne con la rimbrenna. Allora i cesti erano più di uno e il mangiare diventava una cosa seria. 
Sull’erba si stendeva il mantile e tutti intorno seduti a dividersi fagiolini e patate, coratella d’agnello, cacio e uova, casciatelli, insomma quel che passava il convento che a dire il vero, per l’occasione, non era avaro né per gusto né per quantità.
Da bere sempre vino, naturalmente, anche se qualcuno, ma c’era il rischio di venir considerati, deboli o troppo giovani, al primo salire del caldo, iniziava a preferire il bariletto di acqua e limone. 
Il sole, la polvere, la stanchezza, cominciavano a farsi sentire ed ecco riapparire le donne, le ceste, i trufoli. Era suonato mezzogiorno. Era d’obbligo, a quel punto, la pasta della tresca: sagne appezzate, ma anche bucatini, zite, cioffoloni, purché con il sugo con le rigaglie e i ventricini di pollastro e papera muta. Oppure con ragù di papera muta sic et simpliciter.
Per secondo i legittimi portatori delle rigaglie e dei ventricini: pollastri e papere in tegame. E per rinfrescarsi la bocca pomodori e turtarelli. Vino quanto basta.
Il lavoro riprendeva sotto un alacre frinire di cicale e l’opera dell’uomo già misurava il frutto di una stagione generosa in tomoli e stai, ma alle quattro era ora di merenda e ancora uova e peperoni, o pane e cacio, salsicce, ma soprattutto le insalate, o per i più delicati cumberzijune, turtarelli, cocomero e vino annacquato. 
Fino al tramonto quando la cena, questa volta intorno a un tavolo, concludeva un giorno all’insegna del lavoro e della cooperazione e si allungava serenamente fino alle ombre dense della notte. 
E allora i giovani, con la complicità di un organetto e un tamburello, trovavano il modo di riaccendere in tutti la voglia di ballare.

* Piccolo orcio a due manici, con bocca stretta a becco per il vino.