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Sulmona

 

SulmonaCol terremoto del 1933 per poco non si ripeteva la tragedia del 1706 e col nuovo piano regolatore, nella smania di far troppo, si cominciò a metter mano anche al centro storico, che si voleva ridisegnare cancellando tutto il "vecchiume" e reinventando strade e piazze porticate, con qualche lacerto di antico qua e là a fare un po' di scena. E, guarda caso, fu solo la guerra a fermare lo scempio. La musica, dunque, non cambiava e si seguitava a sbagliare, mentre non mancavano i mali comuni e di magra consolazione era certamente il "mezzo gaudio": le guerre, quelle africane e quelle grandi, la prima e la seconda, i bombardamenti, i Tedeschi, la dura realtà del dopoguerra. Soppressioni, mancate promesse, emigrazione di massa, disoccupazione crescente portarono alla sommossa del '57: un episodio direi inevitabile, maturato negli anni ma innescato incidentalmente dal proditorio trasferimento del distretto militare. La rivolta fu detta "borghese" dagli uni, "popolare" dagli altri: "jamm' mò" fu comunque l'intraducibile grido di battaglia per tutti sulle barricate, un grido che fece epopea, che per due notti e due giorni terrorizzò i "celerini" di mezza Italia accorsi a centinaia in quelle fatidiche giornate di febbraio per sedare la strana "rivoluzione" dei Sulmonesi. E mentre la faccenda di "Jamm' mò" si trascinava nelle aule dei tribunali, i "borghesi" di Sulmona si ricordarono di colui che aveva cantato Sulmo mihi patria est e nel 1958 ne celebrarono degnamente i duemila anni della nascita. Per l'occasione fecero un grande scavo in quella che da sempre si credeva la villa, anzi - per dirla col popolino - le "poteche" del loro grande conterraneo, affioranti alle falde del Morrone, appena una spanna più in basso del romitorio di Sant'Onofrio che nel 1294 aveva visto salire i potenti della terra a rendere omaggio all'eremita Pietro Angelerio, eletto papa nel conclave di Perugia. Si frugò tra le rocce assolate per trovare i favolosi tesori nascosti di cui si diceva e i segni tangibili del Sommo Vate. Quelli dovevano esserci ancora e di sicuro - si pensava - una volta riportati alla luce nessuno avrebbe avuto il coraggio di portarli altrove. Ma i Sulmonesi si sbagliarono anche questa volta, e di grosso, perché il piccone indagatore col rilevare non la casa di Ovidio ma un santuario, non solo sfatò le suggestioni di una lunga tradizione ma, quel ch'è peggio, lo stato padrone in nome della legalità, che troppo spesso si fa rispettare solo quando fa comodo a chi comanda, non mantenne le promesse e si prese il tesoro. E così l'Eracle in riposo, che era il pezzo più pregiato - non a caso per la splendida scultura in bronzo si è fatto il nome di Lisippo - finì in esilio anche lui. E poiché la storia si ripete, c'è da temere che, come al Poeta, neppure a lui sarà concesso di tornare all'ombra del Morrone. Con quell'aria di fronda che spirava per le contrade peligne, figurarsi quali e quante prospettive potevano avere i Sulmonesi in lotta per il capoluogo di regione, loro che non erano stati capaci di agguantare la provincia quando era stata quasi a portata di mano, loro che avevano addirittura osato ribellarsi al potere costituito! E per correr dietro a tanti sogni impossibili, in quei frangenti a nessuno venne in mente di puntare sulla cultura e sull'università, grosse torte al tempo non ancora tutte spartite, e nessuno ricordò che in epoca murattiana il sottintendente Giuseppe De Thomasis aveva messo a punto un progetto per l'istituzione in Sulmona di un centro universitario abruzzese, arenatosi per le solite beghe e definitivamente abbandonato con la restaurazione borbonica. Da allora, i discendenti del Poeta degli Amori, gabbati spesso dalla sventura e geneticamente facili all'error, si son trovati in molti casi a far fronte a questa o a quell'altra emergenza, a lottare - e non sempre con successo - per evitare altri trasferimenti, declassazioni e nuove spoliazioni. Sfiorati appena dall'autostrada e sotto la perenne minaccia del taglio dei rami secchi della ferrovia, con l'agricoltura in disarmo e col processo di industrializzazione ormai in fase stagnante, cercano di aguzzare l'ingegno per non diventare piccoli piccoli. Ma intanto negli anni Sessanta si facevano stupidamente soffiare il Festival dei Due Mondi, involatosi poi verso altri lidi, ma che allora Menotti offriva loro su un piatto d'argento. Ora sperano nei parchi e nel turismo culturale, per cui cercano di mantenere alto il livello delle manifestazioni musicali e del teatro, delle rassegne d'arte e dell'artigianato, tentano approcci col mondo universitario, potenziano i musei, hanno riesumato la fiera annuale, seguitano a far "scappare" la Madonna in piazza e, rinverdendo l'antico spirito dei borghi e dei sestieri, hanno reinventato - con risultati indubbiamente sorprendenti - la giostra cavalleresca, quella che agli albori del Rinascimento si correva due volte l'anno nella grande piazza del mercato. In attesa di tempi migliori, dunque, la Sulmona di oggi si consola con le suggestioni antiche e i fasti del passato. Ci ha provato e ci riprova non solo con la giostra, ma anche celebrando i suoi figli più illustri, riuscendo di tanto in tanto anche ad assurgere a capitale della regione, ma solo della cultura e solo per un giorno, anzi - direi - per qualche ora appena, perché spente le luci e levate le mense, del celebrato e dei celebranti non importa quasi più niente a nessuno e restano solo grattacapi e conti da pagare. E così, tra speranze e delusioni, vanno verso il nuovo secolo e verso il terzo millennio, confidando nel fato più benigno e nell'aiuto del buon Dio.

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